Arezzo, 21 luglio 2011 - Il preside Walter Bernardi ha fatto appena in tempo a festeggiare i quaranta anni di vita della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena con sede nella nostra città, che rischia putrtoppo di trovarsi a predisporne la camera ardente. E questa volta la Facoltà non può prendersela con l’Ateneo, o con le rappresentanze istituzionali ed economiche della città, o con la riforma Gelmini.

Anzi diciamo chiaramente che la Facoltà aretina di Lettere e Filosofia non può più permettersi di crearsi degli alibi per camuffare la propria condotta.  Oggi una Facoltà (uso di proposito la vecchia terminologia) sussiste soltanto se può contare su una base minima di trentacinque docenti. La facoltà che ha sede in Arezzo rischia di andare sotto questa soglia e questo accade per due motivi: il primo è fisiologico ed è dato dal progressivo invecchiamento del corpo docente che, negli ultimi anni, ha portato a numerosi pensionamenti; il secondo è dato dall’eventuale diaspora di docenti che avrebbero manifestato l’intenzione di trasferirsi nella Facoltà gemella nella sede centrale di Siena.

Ho avuto modo di ricordare in altre occasioni che la Facoltà aretina ha compiuto in passato l’errore esiziale di appiattirsi, anche nominalmente, sulla Facoltà di Lettere presente nella città di Siena. Tutti i doppioni, si sa, sono come il dottor Jekyll e il signor Hyde: c’è il bello ed il brutto, il buono e il cattivo. Poiché in tempi di crisi le facoltà distaccate finiscono fatalmente dalla parte di Hyde, sembra che il rispettabile palazzo senese del dottor Jekill eserciti un’attrazione fatale. Non so fino a che punto il Preside in prima istanza, e quindi il Rettore, si assumano la responsabilità di avvallare atti che possono portare, o comunque contribuirvi, al naufragio di una struttura complessa come una Facoltà universitaria che è da anni una risorsa non indifferente, in tutti i sensi, per la città. L’Università di Siena si è già alleggerita di due “lauree brevi” che avevano sede in Arezzo, e pertanto non può farsi corresponsabile della cancellazione di un suo insediamento più che quarantennale.

C’è infine l’aspetto più delicato della questione che coinvolge la scelta individuale delle persone. Data per scontata la libertà di trasferirsi da una sede all’altra del medesimo Ateneo, è così facile per un docente recidere i mille legami che ha intessuto con il luogo nel quale ha insegnato ed insegna, con gli studenti con i quali ha condiviso il proprio sapere, con il personale non docente che gli è stato sempre di aiuto, con la città intera che lo ha accolto? Pur con la sua aria scontrosa, la città di Arezzo ha sempre considerato i docenti che sono venuti ad insegnare nella “sua” Facoltà un imprescindibile arricchimento culturale. Ha riconosciuto nella loro presenza una potenziale, e in molte occasioni effettiva, circolazione di iniziative e di idee, e in questo ha investito le proprie risorse.  Ora la palla è in mano, come si dice, alla Facoltà che si trova ad essere arbitro del proprio destino, e questa volta non può sperare in una prova d’appello.