Se una volta tanto l’affaccendato (o sfaccendato) aretino si degnasse di dare uno sguardo alla propria città, scoprirebbe scorci singolari, affascinanti in sé e tali da fargli risuonare un tasto della memoria.
Vivere una città vuol dire consumarla con lo sguardo e magari ascoltarne il respiro, nella consapevolezza che, nella sua storica stratificazione, non è mai avara di sorprese.

Chi in questi giorni avesse occasione di percorrere via Madonna del Prato, la strada più pittoresca e sommessamente elegante del centro storico, una volta superata piazza Risorgimento in direzione della stazione ferroviaria, scoprirebbe uno scorcio inusuale, anzi, più che uno scorcio, uno squarcio.

Una di quelle lacerazioni nell’uniforme paramento murario che, con un senso vagamente osceno, sembrano mettere allo scoperto le interiora di un animale sbranato. Ma in questo caso l’oscenità dello squarcio ha qualcosa di mirabile perché offre allo sguardo un rudere favoloso: la struttura di ferro che reggeva il soffitto a cupola del vecchio teatro e cinema Politeama.

Quell’aerea, elegantissima struttura di ferro sorregge oggi il più leggero dei sogni: il peso imponderabile delle infinite immagini che per anni e anni s’alternarono sullo schermo sottostante e delle infinite battute che risuonarono sulla ribalta.

Una ribalta che, Shakespeare permettendo, si proponeva come metafora del mondo. Quella struttura cattura magneticamente lo sguardo, quasi fosse il sospiro di una realtà che sta scomparendo, e il grande cerchio di ferro che incornicia il cielo sembra l’estremo gesto di un funambolo che inscena l’ultimo e più spericolato degli spettacoli.
La struttura in ferro del Politeama adempie ad un’altra, estrema funzione che è quella di riscattare il degradante spettacolo dei casamenti che s’intravedono attraverso lo squarcio, sordidi, trasandati, scontrosi come altrettanti attori costretti ad esibirsi controvoglia.

Non c’è infatti spettacolo più sgradevole e conturbante dello squarcio di un muro in demolizione che la memoria associa meccanicamente alla guerra o al terremoto.
Qui siamo invece dinanzi alla città che si trasforma, che espunge antiche funzioni ludiche, culturali o di intrattenimento per rimpiazzarle con altre di diverso utilizzo. Baudelaire diceva che le città cambiano più velocemente del cuore degli uomini.

Consoliamoci con questa battuta e citiamola accanto alle tante altre che sfumano attraverso il cerchio magico che reggeva la cupola del vecchio Politeama, accanti ai dubbi di Amleto, i lazzi sottili di Totò, i malinconici “amarcord” di Fellini. In fondo in quella struttura in via di demolizione c’è tutta la dignità del teatro che ci invia l’ultimo dei suoi messaggi.