Arezzo, 26 marzo 2011 - «Basta, licenziamo tutti». E’ la reazione dei titolari di «Jessica preziosi», l’azienda orafa di Ponticino assalita nella notte scorsa da una banda criminale, organizzata di tutto punto e dotata di sofisticatissimi strumenti da scasso. Ma non è stata la stessa storia della Salp perché il colpo è fallito. O meglio, è stato sventato dall’arrivo fulmineo di carabinieri e vigilantes privati, allertati dall’allarme, scattato nonostante i ladri avessero cercato di distruggere il sistema. Professionisti, nonostante il fallimento: in un campo dietro l’azienda hanno lasciato gli strumenti che intendevano utilizzare (fiamme ossidriche, arnesi da scasso, acetilene) per lo sfondamento, roba per un valore di circa diecimila euro. Ed erano in tanti, almeno una ventina, come testimonierebbero le telecamere dell’azienda che li ha ripresi. Poco dopo altro tentativo di sfondamento, all’Astra di Tegoleto. Pure in questo caso l’operazione non è riuscita grazie all’attivazione dell’allarme e all’arrivo di carabinieri e vigilantes. Come nel primo caso, il suono dell’allarme e le sirene delle forze dell’ordine hanno consigliato ai ladri di desistere e di allontanarsi.

 

Ma l’impatto del doppio tentativo è stato comunque deflagrante. Moreno Tavanti è socio, insieme a Marco Benedetti, della «Jessica Preziosi». Ha appreso i fatti a Sanremo dove attualmente si trova per seguire un’altra sua sua azienda. E’ furibondo. «Questa è l’ultima goccia — dice — e abbiamo deciso di andare lunedì prossimo dal questore per presentargli le lettere di licenziamento dei dipendenti. Proprio così: tutti a casa. Impossibile andare avanti, mi dispiace per le famiglie ma non ci sono alternative. Così non si vive più. Quattro mesi fa i ladri entrarono dall’azienda vicina sfondando due pareti, le telecamere evidenziarono che erano armati di pistola. Rubarono poco perché scattò l’allarme e furono costretti a scappare, ma la questione non cambia. Il mio socio ha paura ad andare in fabbrica, viviamo nell’incubo e allora addio, anche va in fumo un’attività che abbiamo realizzato trent’anni fa col sudore della fronte».

 

«Molliamo tutto — conferma Marco Benedetti, l’altro socio — non posso trasalire ogni volta che mi squilla il telefono e poi non chiudere occhio per tutta la notte. Chiudiamo non per ragioni economiche, anzi l’azienda è affermata ed esporta gioielli in tutto il mondo. Ma per paura e per rabbia. Ho l’impressione che il problema sia stato sottovalutato da tutti, anche Fanfani minimizza il problema, so che un Comune non può mandare vigili urbani a presidiare i cancelli, eppure ci vorrebbe un minimo di sostegno morale».

 

Dubbi sulla possibilità di raddrizzare un quadro troppo storto. «Il tavolo tecnico? Conosco tutti i partecipanti e pure io, in qualità di dirigente dell’Api, ho fatto parte del consiglio della Camera di Commercio. Brave persone, come Walter Bondi e Andrea Boldi, partecipi dei problemi. Ma bisognerebbe fare di più e nessuno ci riesce. Siamo al centro di un attacco in grande stile, secondo me ci sono almeno tre bande che agiscono sul territorio, ognuna composta da una ventina di persone, spavalde e che sanno di rischiare poco. Però gli elementi per incastrarle ci potrebbero essere, visto che non si tratta di cani sciolti, ma di organizzazioni ben strutturate. Insomma, non ci sentiamo protetti. Siamo in balìa degli eventi e in queste condizioni chiudiamo la fabbrica. Lunedì lo comunicheremo ufficialmente, vediamo se si smuoverà qualcosa, se finalmente si accorgeranno di quello che stiamo passando».  Intorno a questo clamoroso gesto si starebbe coagulando un nuovo fronte di protesta. Traduzione: altre aziende potrebbero seguire la stessa strada, la strada dei licenziamenti e della cessazione dell’attività. Con tutto ciò che ne consegue.