Arezzo, 10 agosto 2010 - Ti guardi intorno e non vedi nè il paesaggio da slums di Caserta, nè il clima da profondo sud di Avellino, Siracusa o Trapani. Eppure il mezzogiorno dello sport, il terzo mondo del calcio, del basket, della pallavolo o del rugby abitano qui, in questa città orgogliosa di essere civile, ma sportivamente decaduta più di un antico principe siciliano ridotto a vivere nelle cantine del suo palazzo. Caserta sarà pure un pezzo di simil-Calcutta trapiantata alle porte di Napoli, ma ha una squadra di pallacanestro di alto livello, Avellino idem anche se il calcio non è più quello dei tempi della serie A e del presidente Sibilia. Persino a Trapani affondano nel pallone, ma brillano con quello del basket. E non parliamo del profondo nord. A Trento non c’è il calcio ma il volley è da serie A, a Treviso il football è precipitato all’inferno (dopo peraltro aver toccato la massima serie) ma i Benetton tengono alta (ancora in serie A) la bandiera del basket e del volley (da scudetto). E non parliamo di chi ci sta vicino: a Perugia c’è la pallavolo, a Siena c’è stata sì la retrocessione della Robur, ma anche la Mens Sana da scudetto nella pallacanestro. Qui, invece, il niente che è il niente che è il niente.

 

Basti dire che fra calcio, basket, volley e rugby non si va oltre l’ex serie C2 della Sangiovannese. Per trovare una serie A bisogna andare a sport assai poco praticati come l’hockey on line, per qualche altra eccellenza occorre rivolgersi a personaggi del ciclismo come Bennati e Nocentini. E allora la domanda sorge spontanea: perchè? Già, che questa situazione da periferia degradata dello sport sia un destino sarebbe assurdo solo il pensarlo. Se non altro perchè anche qui non sempre è stato così. C’era un calcio di buon livello, l’Arezzo della serie B di Lebole e Golia, quello di Terziani e in ultimo quello di Mancini, c’era pure un grande ciclismo, con le due squadre che hanno dominato gli anni ’80: la Fam-Cucine di Moser e Baronchelli, la Del Tongo di Saronni. C’era la serie A della pallavolo coi Vigili del Fuoco e poi col Volley Arezzo, c’era la serie B del basket con Eutelia. Tutto bruciato in pochi anni. Segno della crisi che ha investito in pieno questa provincia, ma segno anche di un’incultura sportiva diffusa che investe tutti: gli imprenditori come i praticanti e i tifosi. Quasi un serpente che si morde la coda: i risultati non ci sono e quindi nessuno investe, l’effetto è che le vittorie non arrivano. E senza vittorie niente tifosi. Provare per credere l’Arezzo Calcio: punte di 10 mila spettatori con la Juve e il Milan ai tempi della B, una media di mille paganti nell’ultima stagione.

 

Ci vorrebbe qualcuno che rompe il fronte, che spezza il cerchio magico della negatività. Uno o più imprenditori che si caricano del ruolo dei Della Valle, dalla C2 con la Fiorentina alla Champions League. «Arezzo - dice Giovanni Inghirami, nome di fama nazionale e presidente dell’associazione industriali - meriterebbe almeno la serie B». E allora perchè non è così? "I cicli finiscono prima o poi - replica il presidente - diciamo che qui siamo nella transizione fra un ciclo finito e uno che deve cominciare". Sarà per questo che nessun imprenditore di peso ha voluto investire nell’Arezzo della serie D e che le forze sono così esigue? "E’ finito forse il tempo dell’uomo solo al comando, il modello del futuro è quello di più imprenditori che si mettono insieme, magari con il concorso di un po’ di azionariato popolare, come si è già cominciato a fare". Eppure qui si sono visti solo i tifosi che sottoscrivevano quote, di industriali di nome neppure l’ombra. "Per fare un progetto vincente ci vogliono soldi, molti soldi. E’ un’impresa difficile, soprattutto di questi tempi con la crisi che costringe le aziende a concentrarsi sul loro business. Forse si può pensare a un impegno diverso se cambiano le regole, in particolare quelle del calcio, meno spese pazze, contratti diversi ai giocatori. Un ritorno a una maggiore responsabilità, ecco la condizione per investire". Magari con uno sforzo coordinato direttamente dall’assoindustria. «Come l’aeroporto e le reti il calcio è un settore nel quale potremmo intervenire nel quadro di quella città diversa, più evoluta, che è fra i nostri obiettivi».

 

Inghirami ammette che più volte gli hanno chiesto di scendere in campo direttamente nello sport, in particolare nel calcio, "ma non è il mio mestiere, preferisco fare il tifoso. Gestire il pallone richiede competenza specifica, non credo di averla".  C’è invece chi nello sport ha speso e con lo sport si è fatto un nome. E’ il caso di Stefano Del Tongo, che ha pubblicizzato le sue cucine con Saronni. "E’ stato um buon investimento, ci siamo fatti conoscere in tutto il mondo". E oggi perchè nessuno segue il suo esempio? "Altri tempi, ora sono momenti davvero difficili". Tornerà la luce? E’ duro intuirla dai bassifondi della serie D. Del calcio e non solo del calcio.